Laghetti Falchera

È il progetto protagonista del racconto scritto e rappresentato da Andrea Falcone della Scuola Holden. Ora potete leggerlo o vederne la messa in scena.

Andrea Falcone è lo studente della Scuola Holden che ha trasformato in un racconto il progetto di recupero e riqualificazione ambientale dei Laghetti Falchera (di Servizio Grandi Opere del Verde, Servizio Ambiente, Servizio Mobilità, Circoscrizione 6, Comitato Falchera e Gruppo IREN SpA).

Ecco come Falcone ha condensato i 50 anni di storia dell’area in un racconto di 10 minuti:

 

Presentazione del Progetto di Recupero e Riqualificazione ambientale dei Laghetti Falchera

Ho dieci minuti per raccontarvi una storia che si sviluppa nell’arco di cinquant’anni. È una sfida. Voglio partire proprio da questo. Ogni opera dell’uomo può essere vista come una sfida contro il tempo. Una gloriosa sfida, con tanto di schiaffo col guanto. La sfida è gloriosa perché sappiamo che perderemo. Lo sappiamo fin dall’inizio, il tempo vince sempre. Per dire: prepariamo un discorso e già alla prima prova ci accorgiamo di aver perso qualche parola. Inauguriamo un palazzo e già vediamo le crepe che – prima o poi – lo distruggeranno.

Quella col tempo è una lotta che rinnoviamo giorno per giorno, con la nostra presenza. In questo libro [Alan Weisman, “Il mondo senza di noi”, Einaudi 2008], un giornalista americano ha provato a immaginare cosa accadrebbe alla Terra se l’umanità sparisse in un istante. Sarebbe un disastro. Le grandi città del Nord America inizierebbero a collassare dopo poche settimane. La nostra stessa casa non durerebbe che un paio d’inverni. Basta una rondine che si schianta sulla finestra, una gelata che fa scoppiare un tubo, e l’acqua comincerebbe a entrare. Con l’acqua entrerebbero i semi, le spore e gli animali. Quali? Secondo il giornalista che ha scritto il libro, quando saremo scomparsi le nostre città passeranno ai gatti; i cani, invece, si estingueranno.

Certo, nella guerra contro il tempo, è possibile vincere di tanto in tanto una battaglia. Questo posto [il General Store della Scuola Holden] è un esempio. Fino a cinque anni fa, qui c’era una distesa di ortiche, qualche muro scrostato, uno splendido fico. C’è stato un restauro. Ora ci siamo noi. Oppure: per ora ci siamo noi. Scommetto che il fico, sotto forma di radice coriacea, sia ancora qui, da qualche parte. Sta solo aspettando il suo turno. Mi sbrigo quindi col mio racconto.

Primo tempo

Questa storia, come vi ho detto, inizia cinquant’anni fa. Alla fine degli anni Sessanta, Torino stava vivendo un’emergenza abitativa senza eguali: la città aveva un milione e duecentomila abitanti, un terzo in più rispetto a ora, e molte meno case. Venne varato un piano per contenere il problema, con la realizzazione di un nuovo quartiere a Nord, verso Settimo, vicino a quello della Falchera, costruito negli anni Cinquanta. La crisi è tale nell’inverno tra il ’74 e il ’75 gli appartamenti vengono tutti occupati o assegnati, senza che fossero del tutto pronti. Quando arrivano, i nuovi abitanti non trovano i numeri civici. Le strade non sono strade, ma distese di terra battuta o, se piove, di fango. Non c’è la corrente: i palazzi hanno dieci piani, ma gli ascensori non vanno. Intorno, ci sono le gru, i camion, il cantiere del raccordo autostradale. Vi chiedo di immaginare queste cose, anche se non le vedete.

I primi abitanti della nuova Falchera hanno fatto la stessa cosa. Cioè, queste cose le avevano davanti, non avevano bisogno d’immaginarle. Ne immaginavano altre. Immaginavano uliveti, filari di viti, orti. Gli stessi che molti di loro avevano abbandonato in Sicilia, in Puglia o in Calabria, prima di trasferirsi. Immaginavano di coprire il rumore dei cantieri con quello degli uccelli sugli alberi. E immaginavano gli alberi, naturalmente. Tanti. Nel nuovo quartiere, i nomi delle vie sembravano scelti a quello scopo, per aiutare l’immaginazione: via degli Abeti, via degli Olivi, via delle Querce. Solo che a quel tempo non ce n’erano. Questo non impediva ai nuovi abitanti di vederli.

Michele, per esempio, vedeva un ciliegio e un nipotino che ci girava intorno. Giordano e Domenico vedevano peschi in fiore, fichi, un giardino. Tonino era ancora piccolo, aveva due anni, chissà cosa vedeva. Di certo non immaginava che insieme a lui, in Falchera, sarebbero cresciuti tre laghi, dove c’erano le cave di ghiaia usate per la costruzione delle strade e dei palazzi. Non sapeva che avrebbe passato intorno a quei laghi i suoi anni, prima rincorrendo gli amici, poi portando fuori il cane, ora lasciando giocare sua figlia. Intorno ai tre specchi d’acqua si sono concretizzati anche i sogni degli altri abitanti.

Per la seconda volta, vi chiedo d’immaginare quello che non vedete. Non più strade di fango e cantieri ma filari di pomodori e fagiolini, piante di cetrioli rampicanti, zucche estive e autunnali, cardi da mangiare a Natale. Gli abitanti di Falchera hanno immaginato tutto questo. Poi si sono rimboccati le maniche e l’hanno realizzato. Per fare un orto non basta immaginarlo. Bisogna scavare, concimare, lasciare i semi. Annaffiare sera dopo sera, quando dalle finestre si spande l’odore di soffritto. E poi innestare, fare potature e raccogliere i frutti, conservando i semi in casa durante l’inverno, per poi ricominciare tutto quanto, a marzo.

Ora, devo farvi una confessione. Gli orti che sono nati intorno ai laghetti, dalla fine degli anni ’70 in poi, erano fuori legge. Allo stesso tempo, gli orti erano una regola e gli ortolani sceriffi: segnavano gli argini dei laghetti, evitando che qualcuno cadesse in acqua; presidiavano la terra, tenendo lontani i camion illegali dell’immondizia.

E non è tutto. Dovete pensare a questi rettangoli di verde come a macchine del tempo. Ogni orto rimanda a un altro: al luogo dove l’ortolano ha imparato a coltivare. Quando è lì, con le ginocchia piegate, col naso tra le foglie di radicchio, può immaginare di essere nel suo campo di una volta, dove lui è solo un ragazzo e l’ortolano è qualcun altro: suo padre, suo nonno, magari suo suocero. Lì, tra la paglia e il concime, sente che niente è perduto. Che il tempo è un ciclo, che le stagioni ritornano. E così, il sogno di ogni ortolano è passare i guanti a qualcun altro, insegnare quello ha imparato. Non sempre è possibile. È difficile trovare qualcuno disposto a imparare. Pure mio padre ha un orto; io non l’ho mai aiutato molto. – Prima o poi lo faccio – gli dico – c’è sempre tempo. Ma le cose, spesso, non vanno come previsto. Il tempo, in questa storia, ci gioca contro.

In Falchera, piano piano, gli orti erano diventati qualcos’altro. Era difficile contenere gli smottamenti naturali da una parte, le intrusioni umane dall’altra. Così, un paio d’inverni fa, i laghi erano circondati da baracche in lamiera piene di mobili. Le sponde nascondevano auto e moto abbandonate, sommerse dal fango. Di notte, nel lago grande, sono iniziate a spuntare le reti e i gommoni dei pescatori venuti da fuori per portar via i pesci. In quello piccolo, i pesci erano quasi finiti, ma di zanzare e moscerini ce n’erano un sacco. Ostinato, qualche ortolano continuava a il suo lavoro. Pensava, forse, che niente è perduto. Che dopo una stagione brutta, viene una migliore. E così è stato.

Secondo tempo

Nel 2006 è stato siglato un accordo tra il Comune di Torino, i Comuni limitrofi e i proprietari privati dei terreni per destinare l’area dei laghetti Falchera a uso pubblico. Nel 2012, grazie alla vincita di un bando ministeriale sono arrivati anche i fondi. Ci sono voluti anni d’incontri e progettazione finché nell’inverno del 2015 è iniziata un’altra stagione di buche e dissodamenti. Stavolta, non erano quelli dell’orto, ma quelli di un parco di 42 ettari. E così, si riparte: gli alberi vengono sradicati, le baracche rimosse, le sponde bonificate. Le lancette dell’orologio sembrano tornare indietro di quarant’anni. Per la terza e ultima volta vi chiedo di guardare questo spazio e immaginare quello che non si vede, come hanno fatto i progettisti.

Di là c’è uno svincolo e un casello. L’autostrada, ricordate? Coi suoi camion che corrono. Ma voi, dove c’è la strada, vedete un bosco. Un bosco! Proprio in questo momento vengono piantati centinaia di alberi. 840 per l’esattezza. Adesso sono tristi come stuzzicadenti, ma in dieci, quindici, vent’anni, diventeranno ciliegi, salici, pioppi. Saranno come una quinta naturale, che modificherà il paesaggio visivo e sonoro.

Venendo verso le case, guardate il lago più piccolo: quello delle zanzare, per intenderci. Qui vedete dei ragazzi che giocano a calcetto. No, non camminano sulle acque. È stato colmato il dislivello per farne un parco attrezzato, con campetto sportivi, giochi, un’area per cani. Zanzare, papere e gabbiani dovranno spostarsi da qualche altra parte. Bastano poche decine di metri, fino al lago grande.

Questo è stato mantenuto, e anzi: le sue sponde sono state consolidate. Intorno, è stato tracciato un sentiero ciclabile e pedonale. Da un lato, è stata fatta una spiaggetta. Nelle sere d’estate, gli abitanti potranno mettere i piedi a bagno nell’acqua, come avveniva tanti anni fa, e immaginare il mare, il loro mare di Falchera. Gli abitanti, però, non possono andare ovunque. In mezzo al lago c’è un’isola verde. Nessuno la può raggiungere. Magari qui in futuro nidificheranno le cicogne.

Più in là, c’è il terzo lago, che ora è il secondo. Qui il sentiero farà un giro più largo. La vegetazione sarà più fitta, l’acqua più tranquilla. Dovete sapere che durante i lavori è stato notato un ospite inatteso: il basettino. Questo raro uccello lacustre, per niente spaventato dalle ruspe e dai camion, ha fatto capire che è arrivato per restare. Il progetto ne ha tenuto conto. Tra i giunchi e la macchia, quest’area sarà lasciata al verde e agli uccelli. Quando andrete a farci un giro, portate il binocolo.

Oltre i laghi, i campi sono stati destinati alla produzione agricola. Poi, facendo il giro e tornando indietro, ci sono il parco estensivo e gli orti. Orti nuovi di zecca. Con l’elettricità e l’acqua, i casotti in muratura e la pergola. Saranno l’orgoglio di 120 ortolani. Già oggi, ogni giorno raggiungono gli orti, che sono ancora chiusi. Controllare i lavori, aspettando di piantare i semi. Anche i corvi aspettano, guardando dall’alto. Oltre a questi, c’è uno spazio più grande destinato a coltivazioni comunitarie e progetti didattici. I coltivatori, finalmente, avranno degli allievi.

Questo progetto è stato realizzato grazie a una paziente opera di mediazione. Si è creato un comitato di quartiere che ha censito gli orti e gli ortolani. Sono stati organizzati incontri coi progettisti del Comune. Le destinazioni d’uso dei diversi spazi sono state valutate insieme, e così i regolamenti, e i criteri di assegnazione dei lotti. Durante la bonifica, ogni volta che avanzava la ruspa, i vecchi abitanti erano lì, in piedi, col nodo in gola, eppure nessuno ha protestato. Chi coltiva lo sa, il tempo è un ciclo. Niente è perduto.

Tutto per far fronte al nostro problema iniziale, che è sempre il solito: come vincere la nostra battaglia contro il tempo. La soluzione, in questo progetto, è stata quella di partire dalle persone, condividendo l’esercizio di guardare quello che non si vede. Lo stesso che abbiamo fatto noi insieme. Condividere una visione, significa condividere anche la responsabilità di mantenerla viva. Gli abitanti, gli agricoltori, gli ortolani, sono loro che permetteranno al parco di crescere col tempo, e dar frutto, anno dopo anno. Lo stesso faremo noi, vivendo il parco come ospiti.

Certo, la battaglia col tempo è comunque impari. Prima o poi perderemo comunque. Forse, fra trecento anni, Falcherà avrà un habitat tropicale. Magari ci sarà davvero il mare e i corvi e le cicogne avranno lasciato posto a pappagalli e tucani; in città davvero resteranno solo i gatti e tornerà il fico alla Scuola Holden.

Ma intanto, possiamo dire di aver giocato la nostra battaglia col tempo, di averlo fatto insieme e, in un certo senso, di aver vinto.

Andrea Falcone
Scuola Holden