L’architettura come gesto di riparazione

Che tipo di spazi costruiamo, per chi, e con quali conseguenze? Interrogarsi su come l’architettura e il design possano contribuire a curare le disuguaglianze che segnano la nostra epoca: questo il tema della Triennale Milano 2025, intitolata “Inequalities. How to mend the fractures of humanity”.

Nel tempo delle fratture – sociali, ecologiche, economiche – l’architettura e il design non possono più limitarsi a progettare edifici. Diventano gesto di riparazione, risposte sensibili e consapevoli a un mondo sempre più caratterizzato dalle disuguaglianze.

È questa la direzione che la Triennale Milano 2025 (3 maggio-9 novembre 2025) invita a percorrere con il suo tema “Inequalities. How to mend the fractures of humanity”. Una sfida ambiziosa e urgente: non costruire più alla stessa velocità del passato ma costruire meglio, dove c’è bisogno e per chi ne ha bisogno.

Interrogarsi su come l’architettura può sanare le disuguaglianze della nostra epoca non si limita a una denuncia di queste disparità economiche e sociali, ma invita a una riflessione più profonda e radicale: che tipo di spazi costruiamo, per chi, e con quali conseguenze?

Riparare, in architettura, significa ascoltare. Significa riconoscere che certi spazi – come quartieri, scuole, case e margini – sono stati trascurati, mal pensati, resi invisibili. E che ogni progetto è anche una forma di cura: un’attenzione concreta ai corpi che lo abitano, ai gesti quotidiani, alla possibilità di vivere con dignità.

È il messaggio che anche la Fondazione cerca di portare avanti attraverso i suoi progetti come TOHOUSING+, hackathon competitivo che si terrà proprio questo venerdì. In particolare, al centro della sfida progettuale ci sarà “il portale” di accesso al co-housing di corso Farini: uno spazio simbolico di passaggio, un biglietto da visita che offre rifugio e accoglienza, simboleggia riparazione e rinascita.

La riparazione è un’etica dello spazio: significa progettare non per lasciare un segno architettonico, ma per lasciare spazio alle persone. È un’architettura che si misura sul tempo lungo, sulla capacità di rigenerare legami umani, non solo superfici. Molti progettisti contemporanei si stanno muovendo in questa direzione: esplorano materiali diversi, collaborano con comunità in situazioni fragili, pensano luoghi non monumentali ma necessari.

In questo scenario, la 24° Esposizione Universale si presenta come un invito a immaginare lo spazio come strumento di giustizia e ricostruzione. E forse anche come un’occasione per ridefinire il ruolo culturale dell’architettura: non più gesto autoreferenziale di un singolo progettista, ma pratica condivisa di riparazione.

Perché se la frattura è sistemica, la risposta non può che essere corale.